P.P Pasolini: da- La lunga strada di sabbia

 

[…]Lascio la strada sul mare, e mi arrampico su, tra colline fitte di pergole di vigneti, di fichi d’India, più verdi del verde. Ecco a sinistra Scala, e, dopo un’ultima curva da vertigini, una piazzetta con una fontana moresca: sono a Ravello.
Sbaglio tutto: contrariamente al solito, che indovino subito dove devo andare, prendo, a sinistra anziché a destra, lasciata alla fontana moresca la macchina. E vado per un paese anonimo, in fondo, che si allunga come una serpe sulla cima stretta d’un monte: eppure c’è qualcosa di nobile, di misterioso, intorno. Sento puzza di novità. Arrivo in capo alla striscia di paese. “Ma gli alberghi, dove sono?” chiedo a delle donne sedute sui gradini rosicchiati delle povere case.
“Non stanno qui! – fanno, smarrite, dolenti, dolci. – Stanno dall’altra parte!” Ridiscendo di corsa la lunga strada, sorpasso la fontana, e entro, dall’altra parte, nel vero paese. Lì ho passato le due ore più belle di tutto il viaggio, e, sicuramente, tra le più belle della mia vita. È venuta quasi l’ora del tramonto, intanto, e il sole, ancora limpido carico, rade le cime delle colline dense di piante pure, secche, nette come cristalli e insieme piene di umile tenerezza. Continua a leggere “P.P Pasolini: da- La lunga strada di sabbia”

Touch Screen

  

Una piccola nuvola già ammalata della pioggia dell’autunno >
< Una piccola nuvola stropicciata che sventola dietro la collina prima di sparire >
< Una piccola nuvola che s’inabissa all’orizzonte come un mostro marino >
< Una piccola nuvola che si scioglie nella prima stella >
< I l mare fermo come una nuvola quando non c’è nessuno che la guarda >
< Una farfalla in volo mentre lassù diventa una nuvola bianca nel blu >
< Una barca che graffia appena sulla schiena del mare una nuvola leggera >
< Una foglia che s’arrossa come una nuvola al tramonto tu >
che all’improvviso mi passi dentro >
< Una piccola nuvola.

Gesti #10


Pioverà. L’alzarsi del vento è di quell’indefinibile inquietudine e sollievo che mi prende ogni volta che ritorno qui, anche se questo è il mio paese di cui ogni giorno posso guardare i filamenti nelle sue ultime case che arginano il brusco della roccia. Sembra quasi siano lì solo per impedirle di rovinare in mare. E nei pennelli puntuti di verde scuro dei cipressi che sbavano nel verde chiaro dei filari dei limoneti. Il resto è un qualcosa immaginato e familiare nascosto e rappreso dietro la curva che sale.
La pioggia ora è più che una minaccia, anche se ancora sospesa in un – forse pioverà.- M’incammino verso le luci del palco. Il vento rafforza. Gonfia l’impalpabile scenografia dei teli leggeri, bianchi e neri, tagliando il buio della sera come un mare di Milton Avery.
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Piccola Biografia Apocrifa

                      

                                 “Nacqui lenta,
                 senza pretese
                                                                                        in una camera d’albergo
                                                                                 che spingeva l’occhio
                                verso
                                                   il mare.
                   Nacqui appena,

                                                                                  come il ritirarsi di un’onda,
                             senza suono.”

 

 

Torre Paradiso

Io, lo ricordo a stento l’assedio
del mare dirimpettaio
alle pietre di Torre Paradiso
mentre cercava il suo orizzonte
tra i punti a croce disegnati dalle finestre.
Io, lo guardavo,
                        (lo dice mia madre)
lo guardavo con le gambe penzoloni
fra i ferri sottili delle ringhiere
mentre d’estate la scossura delle due
bruciava fra il sale e il muschio delle tegole grigie,
e sotto la marina.

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Intermezzo: alla maniera di Di Giacomo

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O’ sole e’ luglio s’appassuliava chianu chiano.
‘Na luce antica s’allummava e’ rosa ‘ncopp e’ mura,
e còmme ‘nu velo e’ sposa, ‘nu suspiro e’ organza,
si stenneva ‘ncopp ‘a rena scura ‘ra marina ,
facenno nu ricamo miezo e’mbrelloni ‘e segge a sdraio.

Da ‘nu cielo e’ cristallo tuzzuliava scurnusa ‘a primma stella,
e ‘na varchetèlla e‘ legno miezo ‘o mare s’addurmeva.
Pareva proprio ‘na palomma ‘ca strutta e vulà se vuleva arrepusà.

Sola sola, senza ricere niente, se cunnùleava miezo ‘a currenta.
Liegge liegge, comme ‘nu sciato e’ ‘nu criaturo,
‘nu vientariello allisciava l’onna, e ‘ca varca rirenne pazziava.

Comme sarrìa doce io penzai, si a’ varchetèlla io fosse stata
e o’ mare’ e’ braccia e’ nu nnarnmuràto
Ma fu sulo o’viento ca cu ‘na fulata, ‘ncopp a’ vocca
‘nu rappìglio ‘e ‘nu vase me lassaie.

Andata e ritorno

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Esci, e c’è sempre una direzione che prendono i tuoi passi. Il basalto del selciato è duro e butterato come una pelle invecchiata, malata di passato e spenta. Ti accordi alla sua superficie, regolando i tuoi movimenti finché ti accorgi, anzi ti ricordi, che c’è fra te e la strada un senso di equilibrio. È un benevolo patto che ti permette sempre di stare in piedi. E ora quasi puoi illuderti di avere la certezza che quella, sì proprio quella, solo quella è la tua direzione.
La fermata dell’autobus ti accoglie come una piccola cappella, e tu te ne sta lì racchiuso in quell’icona e aspetti. Se piovesse sarebbe ancora ieri.
La strada sgocciola auto in corsa sul rettilineo. Rivoli in viaggio su vetri grigi. Vanno, come se non potessero far altro che andare. E sono come te che aspetti di andare, e intanto guardi l’alone bianco che una piccola goccia ti ha lasciato sulla punta della scarpa.
Eri qui anche ieri, quando la pioggia sottile s’infilava nelle crepe dei muri come un male inguaribile, sedimentandosi in una tristezza scura che orlava i bordi delle terrazze.
Guardi quel piccolo cerchio cristallizzato e sembra l’unico segno del muoversi del tempo, l’unica testimonianza del tuo passato. Non hai neanche più motivo di chiederti se eri lì ieri.
Dietro di te una bocca sorride da due anni e ti augura un benvenuto in tutte le lingue. Una ragazza così non la incontrerà mai nessuno, neanche chi arriva da un’altra direzione. E neanche tu la incontrerai, ma lei è lì per farti credere esattamente il contrario e tu ci credi , almeno fino all’arrivo del tuo autobus. Cerchi di non voltarti a guardarla, ti convinci che quello è il posto giusto, perché è lì che s’incrociano le vite, benedette, santificate da quell’altare in ferro che scolora impercettibilmente colandoti addosso macchie di tempo.
Tu cerchi di crederci, sì che sei tu quello a cui lei sta parlando, che quel sorriso è vero, forse altrove, non qui, ma durerà finché tu sarai lì ad aspettare.
Welcome…wilkomen…bienvenido…bienvenue. È un mantra che reciti a memoria ormai . Un rosario. welcome…wilkomen…bienvenue…bienvenidowelcome…
Guardi a terra. La tua ombra è ancora troppo lunga, è uno stecco che punta ad est piantato nell’asfalto. Quella luce pallida sembra solo una prova generale sul mondo, solo qualche fortunato assisterà allo spettacolo se ne avrà voglia. Se ne avrà il coraggio. È ancora presto adesso.
Se si aprissero tutte le finestre ora, tutte nello stesso istante, l’aria si riempirebbe dell’odore pesante delle stanze avvolte nell’oscurità e del sapore della saliva secca sulle labbra, e gli ultimi sogni, quelli che danno più amarezza a ricordarli nella lucidità invadente delle prime luci, quelli che sembravano più veri, quelli che stavi per afferrare, sì proprio quelli, si spegnerebbero tutti sulla tua faccia, scoppiando silenziosamente come bolle di sapone, svanendo in un invisibile sbuffo del tuo fiato. Puff…Puff…Dormite ancora un po’, c’è tempo. Continua a leggere “Andata e ritorno”

“la mar”

la mar

 

“Pensava sempre al mare come la mar, come lo chiamano in spagnolo quando lo amano. A volte coloro che lo amano ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna. Alcuni fra i pescatori più giovani, di quelli che usavano gavitelli come galleggianti per le lenze e avevano le barche a motore, comprate quando il fegato di pescecane rendeva molto, ne parlavano come di el mar al maschile. Ne parlavano come di un rivale o di un luogo o perfino di un nemico. Ma il vecchio lo pensava sempre al femminile e come qualcosa che concedeva e rifiutava grandi favori e se faceva cose strane e malvagie era perché non poteva evitarle. La luna lo fa reagire come una donna , pensò.”
                                   [Il vecchio e il mare – Ernest Hemingway]

 

C’é appena un po’ di vento. Soffia dal mare
e lo fa di un colore verde pallido, lattiginoso come se fosse
di materia vetrosa appena scossa,
un alabastro antico andato in pezzi e poi pazientemente rimesso insieme,
come quelli che si vedono nelle teche dei musei e sono percorsi
da mille e mille sottilissime crepe che sanno di un mistero tramandato
un passato che il tempo non ha rimosso. Continua a leggere ““la mar””

Segni

 

Del primo non te ne accorgi. È un pacchetto di sigarette vuoto
che ti fa uscire. Il giorno: un vagito
che proviene da dietro la collina. L’attesa del mare:
un respiro paziente, uno sguardo senza compassione.
Tutto sembra pronto, come prima dell’inizio di una lezione
la stessa tensione, le stesse prove di odori, gli stessi tentativi di rumori.
Dalla spiaggia il mare sembra buono, una cosa senza trucchi
l’evidenza di un fatto che non dà da pensare, come quando dici che ci credi.
Quando ritorni sui tuoi passi, col mare ci riempi la borsa della spesa,
ci riempi le parole che dici, le parole che ascolti, e via via tutte le ore fino a sera
quando prima di dormire, hai l’abitudine di guardare il tempo.
Segna : 00.00 – è un buon segno- pensi, come se avessi fatto solo un brutto sogno.

Poesia senza un perché: leggendo Pavese a Reggio Emilia

 

Sarà che qui non c’è la bocca del mare,
né quella sua malattia
che non la vedi se non in certe ore
quando il mare, la malattia, l’ora
sono il salire dentro un corpo di donna.
Qui c’è il piano delle strade che le fa lontane
come certe colline che le vedi alte
quando le guardi
dando la schiena all’orizzonte.
E poi i rumori, che è come se passassero
attraverso una notte e
la notte è il girare delle ruote.
Leggo Pavese senza un perché,
solo per mettermi dentro l’aria
e non sentire le voci dei muri,
o il peso di qualcosa da dire
intanto che muore.

Settembre

E oggi nel vicolo sui muri passa come un vento che porta via gli annunci dei concerti.
Quelli delle sagre si scambiano i colori a graffi e a morsi. Resistono intatti un po’ nei lembi ciondolanti, poi si staccano come fanno già le foglie. Il nome di un artista rotola sui basalti, corre preso da un’improvvisa fretta, poi vola via, in alto, in un punto così lontano che già non lo ricordi. Sugli stessi muri fioriscono bianchi e neri gli addii ai vecchi.
Le ore oggi mancano gli appuntamenti. Ti accorgi adesso che le ore diventano imprecise come se il tempo avesse smarrito l’orologio.
Ed è strano come all’improvviso in settembre il mare si cancelli.
Scioglie nell’oblio i suoi sentieri, torna alla sua forma astratta. Liquido e sfuggente. Il camminare da una sponda all’altra a piedi nudi sulle acque svanisce. Come un miracolo che di colpo si rivela un’impostura. In qualche posto il mare è
“al mare”, in altri “al di là del mare”. E come lui, anche tu qui, come un lato da immaginare a caso .

Senza titolo #5

Sapere dire altro, in un altro modo
fare del qui l’adesso come quando
qui era il posto certo, l’aderenza dell’ora
all’aria, il fuggire del mare senza incroci
al morso del destino, e sul finire delle sere era qui
anche l’esserci, e le stelle erano così lontane:
non c’era verso di contarle né d’interpretarle
e l’averti e il non averti era un fifty-fifty
come tutto del resto. Qui e adesso.

Una poesia metropolitana

hans-hartung.jpg

 

A volte vorrei avere una città dove stare. Una qualunque.
Immensa, un rebus di cemento. Una città rompicapo
che prema sulle mie tempie. Vorrei averla quando qui piove
ed è notte. Come oggi.  Come ora. Gli aghi dei mille palazzi.
Il filo teso dell’asfalto. Un nodo che attanaglia dietro le finestre.
E la mia ombra che si frantuma nelle pozzanghere,
sotto le ruote delle macchine. Di questa pioggia ne farei
una poesia metropolitana, un tram che arriva al capolinea,
lo stesso rumore come se non ci fosse  nessuna luce
d’aspettare né un buio da salvare. La farei dura, violenta,
senza respiro, amara e corrosiva. Come del sesso fatto in fretta,
e che si ribella, e stride quando tocca il fondo così tutti possono sentirla.
Le farei cantare come un ubriaco una canzone sconcia, e dire chissenefrega
con arroganza a chiunque si lamenti. E le farei urlare la solitudine
nelle luci delle vetrine. E sputare in terra tutta la rabbia
tutta la delusione. Invece sono qui che guardo il mare
e la pioggia impotente che finisce nel suo vuoto.
È vetro sottile che si rompe. È acqua nell’acqua
senza un malocchio da sciogliere, senza un suono che la maledica,
senza un tempo che la ricordi come era prima di svanire
e che neanche sa quanto mi somiglia
questa notte questa pioggia questa poesia