Gate: La Tempesta

 

r. è conosciuta nel suo ambiente come la Bulgara, ma r. è di Gragnano. r. ha i capelli biondi biondi ma sono tinti, gli occhi invece sono proprio così, di un verdeazzurro tanto insolito e particolare che sembra finto. Una volta una persona colta, un professore le aveva perfino detto che era uguale al verdeazzurro che si scatena nel cielo in tempesta del Giorgione. La mamma di r. quando r. era una bambina e aveva ancora i capelli neri la chiamava bell’uochie mie. La mamma di r. a volte le dava un bacio e aggiungeva c’ust’uocchie farai l’attrice. r. dopo tanti anni non lo sa ancora se era partita da Gragnano per il Nord perché ci aveva creduto o il suo era stato solo un atto di ubbidienza. r. al Nord ci era rimasta e alla fine aveva trovato anche un lavoro, e a Gragnano non ci era più tornata, di tanto in tanto telefona alla mamma le dice sto bene mamma faccio qualche particina, no mamma il mio nome non ci sta sulla locandina e a Gragnano questi film al cinema non li danno, e non glielo dice che dopo che ha finito il suo lavoro è così stanca che chiude gli occhi e dorme. r. non le dice neanche che a volte però si sveglia che le sembra di sentire qualcuno che la chiama col suo nome di bambina, e allora si mette a pancia insù e si ripassa nella testa il suono di quel nome così come l’ha sentito mentre dormiva. Una volta r. l’aveva detto ad un cliente che r. mica era il suo nome, mi chiamo f. gli aveva detto, mia mamma mi chiamava f.bell’uocchiemie, tutto attaccato, e lui le aveva detto che non gli importava, non m’importa le aveva detto tu sei la mia puttana. r. allora aveva chiuso gli occhi, spento la tempesta.

Gate : Non ho niente da dire

 

g. ha pensato alla morte molto spesso negli ultimi tempi. g. non ha alcun motivo di pensare alla morte, ma la morte arriva nei suoi pensieri, allora g., quando il pensiero della morte arriva, pensa a se stessa così lontana dalle cose che non riesce più a vederle. g. pensa allora che anche tutte le cose muoiono quando lei muore. g. ha tante cose solo sue che conserva gelosamente perché le ricordano un momento, qualcuno, ma oggi g. ha deciso di buttar via tutto, oggi ha capito che la morte è non avere più i ricordi, e quelle cose alla sua morte ritorneranno ad essere soltanto cose.
g. quando ha finito di buttar via guarda i due grandi sacchetti, dentro ci sono i suoi ricordi, ora sono lì ma continueranno ad incrostarsi ai pensieri nella sua testa. Anche la sua testa è un sacchetto, pensa g., e la morte lo butterà via. Sorride. Forse potrebbe scrivere un biglietto, solo poche righe, da lasciare agli altri. Così su di una busta scrive da aprirsi alla mia morte. g. pensa che è stato facile scrivere quelle cinque parole; la morte una volta scritta non le apparteneva già più. Poi g. resta a lungo a fissare il foglio bianco senza trovare nulla da dire, come se tutte le parole fossero solo in quei ricordi ora accatastati alla rinfusa e costretti nel biodegradabile buio, e lì soltanto ne conservassero il senso. Allora g. scrive non ho niente da dire. In basso aggiunge p.s e poi il suo nome. Infila il foglio nella busta, lecca con cura la colla e richiude la busta con la leggera pressione della mano chiusa a pugno.

Gate : Una storia per davvero complicata

m. è il suo nom de plume. m si diletta, no, ama, no, ha la passione, no… m. se glielo chiedi non sa mai bene come definire questa cosa. m., che in realtà si chiama g. scrive racconti. Non lo sa lei se sia per diletto, per amore o per passione o chissà per quale altra ragione, m. scrive senza chiedersene il motivo, lei scrive soltanto seguendo le storie che si muovono nelle cose. m. si firma così da quando la sua amica più fidata dopo aver letto un suo racconto le disse che a leggerlo veniva il mal di testa come quando ci si perde nei colori di Matisse. m. infatti scrive strane storie arditamente arzigogolate le cui trame cambiano continuamente direzione e spesso non hanno un vero finale. m. una volta ha incontrato uno scrittore vero, che scrive storie vere e che se gli chiedono cosa lo spinge a scrivere storie così vere e lineari sa dirlo senza tentennare, anche se ha scritta sulla faccia un’aria complicata, confusa e un po’ assente. Sei brava le aveva detto lo scrittore, scrivi come un uomo. m. gli aveva risposto anche tu sei bravo, la tua scrittura è molto femminile e lui si era offeso. m. aveva pensato che quella era una storia con molte ombre, quella era per davvero una storia intricata da raccontare.

Gate : Che dici?

 

t. per i suoi venticinque anni di matrimonio ha voluto una gran festa. Per giorni si è data un gran da fare, per gli inviti ha telefonato a tutti, parenti e amici. Ha comprato per sé un abito di seta bianca, molto elegante, e per la cena ha prenotato un costosissimo locale. Che bel vestito le dicono tutti quando arriva. Auguri, auguri. E t. sorride. Tutti sorridono come se si fossero preparati a farlo per anni e anni. t. ha un bicchiere vuoto in mano quando si accorge di una enorme macchia proprio in vita, distoglie lo sguardo per dimenticarla, la guarda ancora, la fissa e poi liscia la stoffa, la tende come se volesse levare via lo sporco con un gioco di prestigio. Ma sulla stoffa tesa la macchia si allarga. Scura al centro e sfilacciata lungo tutto il bordo irregolarmente tondo. È un disastro, e t. cerca di nasconderlo con una mano. Sapete, anche dietro questi anni tutto è in rovina, dice. E solleva il bicchiere. Auguri, auguri. Tutti la guardano. Ora non sanno cosa dire, non sanno cosa fare. Che dici? le dice lui. Ecco, questo è il punto, da venticinque anni si parlano usando due lingue.

Gate : Come un fiore che si stacca dal gambo

 

b. ha settantaquattro anni e gli occhi di un azzurro lattiginoso e spento come se dentro, di quel tempo, non ci fosse passato niente. Ha l’abitudine di dormire su di un fianco, voltando le spalle all’uomo, al vecchio che ogni sera le si distende accanto. Stanotte si è tirata ben bene la coperta rosa fin sulla testa. b. ci guarda attraverso e il buio terso si fa di un rosa rugginoso e marcio. b. torna a pensare spesso alla sua prima volta, quando si era aperta come un fiore all’uomo, ora vecchio. Che strano, non aveva sentito nessun dolore. È così per i fiori? Si aprono alla bellezza e di bellezza senza né sentire né sapere cosa o dove la bellezza sia? b. si scosta la coperta, scopre la testa e fa per girarsi verso l’uomo, il vecchio, come se da lui volesse una risposta, ma poi all’improvviso lo sente, è un dolore enorme, che si espande ovunque, e fiorisce, fino a riempire la stanza dal pavimento fino al soffitto, inutile come se fosse stato chiuso troppo a lungo, e fosse diventato altro che somiglia ad un tempo che non le era appartenuto. Resta ferma. Chiude gli occhi. È tardi adesso. Il buio le cade addosso, lieve come un fiore che si stacca dal gambo, senza ricordi. Forse ora finalmente sogna.

Gate : Ventitre Minuti

f. di quella sera ricorda solo che indossava un vestitino a fiori gialli. Nient’altro. E che mancavano ventitre minuti alla mezzanotte. Sì, in mente le è rimasto solo quel colore e l’ora esatta. Il gesto di scoprirsi il polso sollevando appena un petalo di stoffa. Ventitre alla mezzanotte. Ventitre minuti per rientrare a casa, come promesso. Quanta vita può passare in ventitre minuti? Un ultimo bacio, un’ultima risata, un ciao ci vediamo a scuola domani, un’ultima parola ancora da sussurrare in un orecchio e ancora un ciao ci vediamo domani a scuola. La banale giovinezza. O uno stupro. Ci sono molti modi di ricordare. E molti ce ne sono per dimenticare, f. di quella sera ha in mente solo un petalo giallo e l’ora esatta, le altre le passa a ricucire alla meno peggio il buio.

Gate: Una Bellezza Semplice

r. si sentiva predisposta solo alla bellezza. Non ci trovava nulla di male o sconveniente nel pensare che quello fosse un dono che la natura le aveva dato. Il cattivo gusto e le storture dei sentimenti le ferivano gli occhi e le aprivano di volta in volta piccolissime crepe che nel cuore le correvano ovunque sottili e fitte come linee su un foglio di carta millimetrata. Per lei avrebbe voluto nulla che non fosse perfettamente armonico, nulla che fosse meno del completo equilibrio che c’è nell’architettura della coppa immacolata di una calla, del suo stelo semplice e forte e delle sue turgide foglie a punta di lancia, e se questo non poteva averlo, se non poteva avere una vita fatta di una bellezza semplice allora non voleva avere nulla. Il 23 agosto di dieci anni fa uscì dalla sua casa e non vi fece più ritorno.

Gate : Stile Moresco

f. ogni sera recita una preghiera che più o meno fa così. Oh cuore, piccolo cuoricino che te ne stai chiuso nella tua gabbietta e tutta la vita vivi da prigioniero, dimmi come fai da lì a sentire e vedere tutto quello che accade fuori, come fai ad avere tanti sussulti senza avere né gli occhi né le orecchie, come fai se nessuno te lo ha mai insegnato a riconoscere le cose belle se, nel buio dove vivi, ti circondano tetri rumori che sembrano nascere da creature spaventose, e dimmi oh cuore, piccolo cuoricino come fai ad avere tanta speranza e tanta pazienza nel fare il tuo lavoro fino alla fine, intanto che aspetti che qualcosa di bello arrivi, dimmi, insegnami la tua pazienza ora che è notte e sono anch’io qui nel buio, oh cuorino prigioniero, e sono proprio uguale uguale a te. Poi f. chiude gli occhi e nel silenzio della sua stanzetta tutto ciò che sente è il suo cuore che le risponde tump… tump… tump…tump…tump e lei non capisce.

Gate : Arabesque

c. è esagerata in tutto. Si carica la faccia di rossetto, mascara e ombretti, e i suoi vestiti sono caleidoscopici intarsi di colori sovrapposti. Non è sempre stato così, questo se lo ricorda, ma ora ogni mattina perde ore e ore a far sparire le emozioni sotto cumuli di stoffe e di trucco. Ha tantissimi uomini. Ne colleziona i nomi che scrive diligentemente su un taccuino piccolo piccolo dalla copertina color cannella. Le lettere, per mancanza di spazio, su quei fogli piccoli piccoli si attorcigliano come un arabesque, e sembrano scritte in una strana lingua, molto complicata. Lei però si stupisce sempre di come gli uomini siano monotonamente uguali con il solo sesso eretto, e le è rimasta l’abitudine di chiamarli tutti “amore”.

 

Ho visto

Ho visto sulla spiaggia alcuni ragazzini         ho visto accendere un fuoco
e ora se ne stanno intorno       con le guance arrossate
dall’eccitazione e da questo primo inverno          sulla sabbia    
ho visto le pagine ingiallite di vecchi quotidiani     ho visto il nero fremere
nel nero degli orli   accartocciarsi                e forare il tempo passato
e poi disperderlo      in uno svanire vuoto    ho visto i legni sottili
umidi di mare segnare febbrili addii nel denso fumo         scuro
ho visto il vento   dileguarlo        in fretta
fra i capelli scompigliati dei bambini            di tanto in tanto
ho visto vibrare per un  breve istante        uno scoppiettio
aspro          a cui è seguito con un guizzo       un nastro di fuoco e
ho visto le loro voci alzarsi e            ho visto bruciare le voci  nell’aria
con la stessa nota secca  e            inattesa
ho visto      l’inenarrabile storia della fiamma e        ho visto i ragazzini
 come piccoli passeri spaventati      sparpagliarsi e io  qui 
ferma                 a guardarli correre sulla riva  come pronti al volo
ai miei piedi nel grigio di questo pomeriggio       ho visto il fuoco  consumarsi
così come quei miei giovani anni         ho visto

Dollies Store: Forse

Sera. Una famiglia. La cena frugale       gli avanzi del pranzo
un po’ d’insalata e per finire 
una macedonia dagli scarti salvati della frutta
la macedonia piace a tutti    – ancoraunpo’ancoraunpo’ – chiede
la piccola e porge il bicchiere – ancoraancoraancora –
la sua vocetta stride sul piano dell’aria
come un gessetto sulla lavagna – aspetta – dice il padre
e lei insiste                               – dipiùdipiù- spinge il bicchiere
come la testa di un ariete                        e il bicchiere
già colmo di frutta traballa fra le mani e il tavolo e Continua a leggere “Dollies Store: Forse”

Troppa velocità troppo rumore

È un’altra sera di un settembre. Almeno così sembra io
me ne sto seduta nel rumore dei pensieri del vagone
e guardo fuori. Troppa velocità
e troppo rumore. Le cose sono deformati proiettili       e  grigie
le luci       corde fluorescenti che fendono il buio. Allora
chiudo gli occhi           e immagino altre cose
faccio una lista di quelle che non fanno suono
così mi viene da pensare            che in qualche parte di settembre
l’aria è l’aria che respira         la spiaggia stesa
 l’umido salmastro che sale dalla sabbia
Continua a leggere “Troppa velocità troppo rumore”

Ah! : Le donne dell’Est

[…] Le donne dell’Est sono estratti di un passato che qui non ha mai lasciato queste strade. Hanno mèches percorse da una punta di giallo oro sfiammato di rossoviola che somiglia alla malinconia immobile che è anche nel resto delle cose. Scorrono dentro come un semplice memento alla bellezza per noi che da qui da un passato non ci siamo mai allontanati e per questo non abbiamo termini per farne adesso una questione di frontiere. Continua a leggere “Ah! : Le donne dell’Est”

Cosa dovevamo farne adesso?

Ci viene servito il pesce, e a questo punto
qualcuno tira fuori quella vecchia foto, da una tasca?
da una borsa ? sembra essere stata scavata
dalla stessa consunta malinconia
che impregna la tappezzeria e la piccola sala
che s’affaccia sul porto vecchio. Dai finestroni larghi
si scorgono le barche e il tendersi del cordame e
quel loro ipnotico torpore. Piove,
                                              com’è giusto che sia,
le gocce scivolano lente e sporche, e un tempo severo
lacca i vetri. C’è fumo e odore di pesce.

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Frequenze radio

è piccolo, è come lo spazio mobile del pulmino
quando mi porta all’aeroplano
e lo riempie fitto un balbettio
di ________________ 
fra… gra… all…no… eec…se…
è la frenesia babelica della comunicazione
che mi urta e mi spintona,
io metto la frequenza sull’assenza,
per non sentire la stessa paura che mi prese
quando sentii dire da un poeta
che aveva scritto migliaia di poesie
e immaginai il contorcersi infinito di quel nero
tutto intorno alla mia gola.
Assaporo il volo vuoto e candido
di non avere nulla da dire.