Poi il sole cala e mi rassegno alla luce delle lampadine,
alla ruga che mi corrode la faccia, alla sensazione che presto
sarà un buio senza trucco.
Sono le cinque. Gli appuntamenti quando scadono
non lasciano sbavature di rossetto, sfumature di ombretto.
È tempo adesso.
E senza cuscini, senza nuvole di piume
fra noi l’aspetto del giorno è un tapis-roulant,
come di sabato le strade quando le distanze si sfilacciano
e per toccarsi basta rimanere immobili.
Lo spazio è un filo di fumo che sale dalle tazze
che ora tocca le bocche, ora cerca gli occhi
fra un’intermittenza di parole
che muore in ogni attimo che viene dopo, e tutto quanto ci diciamo
è un torto a tutto quello che ignoriamo.
Come poeti in guerra inventiamo frammenti di carezze, innesti di mani
bende di odori sulle frontiere di galassie fluorescenti
che cedono, quando chiudiamo gli occhi, ingoiate
da un buio fermo di passi, dallo scricchiolio del legno,
dall’abbaiare di un cane
e si spengono.
In mezzo noi, messi ognuno in un altro corpo, in un sarà che ci rincorre
con una corrispondenza scritta a matita
che si cancella ad ogni suono
e si allontana in qualche tempo perso che non ci risponde
e che forse presto ci sorprenderà vuoti e stanchi, senza aver vinto niente.
Ci mettiamo vicini e lontani- a fasi alterne- come una luce al neon
che singhiozza in una messinscena di silenzio
per non cedere alla tentazione di pensarci
oltre quel tempo minimo che ci mette a nudo
poi ci prende la fretta di tornare a casa
e immaginare quale suono avrà sapersi nelle nostre stanze.