“Le pareti di questo hotel…”

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Credo che la tenda fosse socchiusa, e io odio tutto ciò che resta in una posizione incerta, trovo irritante quella specie di limbo in cui niente è definito. Un’anta lasciata accostata dopo aver preso la giacca, un cassetto semiaperto potrebbe anche rovinarmi una intera notte. No, proprio non sopporto le cose lasciate a metà, quando dormo anche tutto intorno deve trovarsi in un suo stato di riposo. Io quella sera me ne stavo sdraiato sul letto e guardavo distrattamente la tv, più che altro passavo da un canale all’altro e intanto speravo che la stanchezza mi portasse ad addormentarmi e che anche quella notte passasse in fretta. L’indomani sarebbe stato venerdì, l’ultimo giorno della settimana in cui avrei dovuto continuare a sputare ancora parole per convincere qualche cliente ad acquistare uno dei tanti prodigiosi prodotti della ditta Silverplat.
Sì, credo proprio che la tenda fosse socchiusa, e benché m’infastidisse saperla non completamente chiusa, quella sera avevo scacciato l’idea di lasciare la mia comoda posizione per accertarmene -lo farò dopo- mi dissi. Comunque la pesante tela scura si confondeva perfettamente con la notte che, al di là del vetro, non rimandava nella stanza non un minimo accenno di chiarore, così avevo continuato a guardare annoiato lo schermo. È stato allora che l’ho sentita piangere. Dapprima mi era sembrato che il suono provenisse dalla tv, ma quando ho cercato di isolarlo dal chiacchiericcio del programma televisivo mi sono reso conto che mi giungeva attraverso la parete su cui me ne stavo appoggiato. – Le pareti di questo hotel sono sottili come carta- pensai e diedi una lunga boccata alla sigaretta prima di spegnerla nel posacenere già colmo di cicche. C’è sempre un periodo in cui le vendite vanno a rilento, questo mi rende nervoso, e quando sono nervoso fumo, fumo molto più di quanto faccio solitamente – impegnati, trova nuovi clienti- così mi avrebbe detto il capo dopo il mio rapporto settimanale, e intanto si sarebbe lanciato una mentina in bocca, e accompagnandomi alla porta il suo alito mi avrebbe riportato lo stesso odore della camera in cui mi ero ritrovato stanco e insonne, ad ascoltare una sconosciuta piangere nella notte.
L’albergo era uno dei tanti a due stelle in cui mi fermavo quando ero in giro per lavoro. Di solito ci passavo la notte e al mattino ripartivo, questo per cinque giorni la settimana. Era da tanto che facevo questo lavoro, e mi ero abituato ad entrare e uscire da stanze ogni volta diverse e ormai non badavo più se fossero più o meno accoglienti, mi bastava avere un letto e un bagno più o meno pulito.
Quelle stanze ad ogni modo si somigliavano tutte, avevano tutte lo stesso aspetto ordinario e i particolari insignificanti che le distinguevano, come un copriletto a righe invece che a fiori, una scomoda poltroncina al posto della solita sedia, avevano finito col passare del tempo con l’essermi del tutto indifferenti. Ciò che le accomunava erano le finestre e i bagni. Le prime affacciavano quasi sempre sul parcheggio oltre il quale il paesaggio si snodava scarno e anonimo, qualche albero brullo, avvelenato dai gas di scarico delle macchine che transitavano sulle strade poco distanti, qualche lampione la cui luce soffocava nell’umidità notturna. I bagni invece erano sempre piccoli e angusti, rivestiti da minuscole mattonelle scure, forse per mimetizzare un’igiene non proprio perfetta. Più di una volta mi era capitato, lasciando cadere lo sguardo in qualche angolo dove la luce della lampada a neon arrivava a stento, di vedere batuffoli di capelli, castani, più scuri, biondi, unici testimoni del succedersi dei clienti, mi ero comunque abituato a guardarli come se facessero parte anch’essi dell’arredo, tracce di vita qualunque che s’annodavano inconsapevolmente. Però di una stanza mi ricordo, anzi quando ho sentito la donna piangere credo che stessi pensando proprio al senso di squallore e solitudine che avevo provato in quella camera. Ricordo che mi ero fermato lì dopo un lungo giro. Pioveva, ed ero stanco di guidare e anche di stare in piedi nei corridoi in attesa di essere ricevuto. L’insegna lampeggiava un invito a fermarsi, e benché quell’albergo non fosse uno dei miei abituali, ero troppo stanco per non accettare. Il portiere mi aveva accolto freddamente, quasi infastidito dalla mia presenza che l’aveva costretto a distogliere la sua attenzione da un programma televisivo. L’apparecchio era sistemato in basso, sopra una mensola dietro il banco del ricevimento, io non riuscivo a vederlo ma ne potevo vedere le luci che variavano e a intermittenza illuminavano gli altri ripiani ingombri di carte e oggetti vari lasciati nel disordine. Quando gli avevo chiesto una camera si era alzato molto lentamente sistemandosi un bottone della giacca con un gesto automatico più che per un senso di professionale rispetto verso un cliente.
– Ci sono solo camere matrimoniali –
Annuii.
– E’ solo?-
Annuii nuovamente.
– Sono 35 a notte, la colazione non è prevista-
– E’ solo per stanotte grazie
– Documenti – mi chiese continuando a lanciare occhiate allo schermo che sembrava interessarlo più di me.
Ricopiò svogliatamente i miei dati su un registro e spinse verso di me le chiavi lasciandole scivolare sul bancone.
– 114 primo piano a destra.
La camera era al buio quando vi entrai, ma il tanfo di sigarette e di chiuso era così forte che per un attimo pensai che quell’oscurità ne fosse il colore. Quando azionai l’interruttore una luce arancione si diffuse nell’ambiente, mi venne da sorridere perché me l’ero sempre immaginato così un bordello, luci soffuse, una gran puzza e drappi rossi ovunque, ma lì di rosso non c’era niente se non un’orribile ventola di finta seta plissettata che schermava una lampada da muro accanto al letto. Ero sfinito, mi ero tolto la giacca e mi ci ero buttato sopra e fu allora che lo vidi, sì solo allora mi accorsi del grande specchio che lo sovrastava.- Ma dove sono finito?- ricordo di aver pensato, e lo specchio mi rimandò l’espressione stupita della mia faccia avvolta in quell’ambigua tonalità di arancio e l’immagine del mio corpo abbandonato sul copriletto, un uomo di mezza età disteso. Avevo sganciato il primo bottone dei pantaloni e la fibbia della cintura, la cravatta allentata si appoggiava scomposta sulla pancia leggermente pingue, non avevo tolto le scarpe e benché fosse inverno sentivo l’odore acidulo del sudore del mio corpo. Ero certo che lo specchio fosse destinato a ben altri scopi, ma la mia fantasia non si era lasciata stuzzicare da pensieri erotici perché l’aspetto ordinario della mia immagine aveva avuto il sopravvento su ogni altra. L’inquietudine che mi procurava quel mio riflesso e la consapevolezza che anche nel buio avrebbe continuato a spiarmi dall’alto, trasformò in incubi il sonno in cui di tanto in tanto ero caduto. Mi ero visto come non mi ero mai visto prima di allora, uno stanco uomo qualunque che passava le sue notti in alberghi di quart’ordine, una vita che si trascinava senza salite o discese, che mi si era ormai appiccicata addosso come un vestito bagnato che probabilmente continuavo ad indossare anche quando ritornavo a casa. – Era così che mi vedeva Maria?- mi chiesi.
– E’ una fortuna aver avuto questo lavoro proprio adesso- così c’eravamo detti con entusiasmo appena sposi. Ma poi la routine stancamente aveva avvolto la nostra vita e avevamo smesso di chiederci se ci fosse qualcos’altro che potevamo aspettarci dal futuro.
Tra quella alternanza di veglia e sonno, e i mugolii di qualcuno che nella stanza accanto faceva l’amore, quella notte la passai praticamente in bianco. Probabilmente anche quella sera, quando avevo sentito la donna piangere al di là della parete, il mio aspetto non era differente da quello che avevo visto nello specchio, e così anche il mio umore.
Il pianto all’inizio era appena percettibile e avevo cercato di non badarci concentrandomi su un reportage sulla foresta amazzonica. Dal grigiore di quella stanza sembrava impossibile che potessero esistere posti del genere, di tanto in tanto inquadrature ravvicinate di una qualche specie di fiore, forse orchidee, lanciava nella camera incredibili sfumature di viola, rosa, giallo, ma quel pianto sommesso continuava ad emergere sempre da quel caleidoscopio di colori richiamando la mia attenzione.
Non sapevo dare un’età a quel pianto, le donne quando piangono sembrano sempre bambine, piccole bambine indifese, ed io non so mai come reagire al loro pianto. Una volta avevo sorpreso la mia Maria. Se ne stava lì in piedi di fronte alla finestra e guardava fuori. Non guardava niente di preciso, ma mi sembrò che la tristezza di quel pianto fosse materializzato in un punto lontano e di lì le rimbalzasse dentro con una maggiore intensità e dolore. Piangeva silenziosamente, e se non avessi visto le sue lacrime avrei pensato che stesse semplicemente guardando fuori – che c’è? – le avevo chiesto, e lei – non è niente – e aveva cercato di asciugarsi in fretta il viso.
Mi ero allontanato da lei senza riuscire a dirle altro, e mi era sempre rimasto il rimorso di non averla abbracciata in quel momento perché anche se fingevo d’ignorarlo, io intuivo il senso di abbandono che a volte provava.
Ma chi era a piangere al di là della parete? Era sola? Perché piangeva?
Avevo abbassato il volume della tv, mi ero messo a sedere sul letto e nella stanza semibuia rivolgevo l’orecchio verso quel muro che mi divideva dalla sconosciuta, e fu allora che una voce maschile si sovrappose al leggero singhiozzare – dai, smettila ora- le diceva – non volevo venirci, tu lo sapevi- gli rispose una giovane voce. Una coppia clandestina, pensai, un litigio fra amanti.
-Stai facendo la difficile-
-Mi avevi detto che mi portavi a ballare –
-Dai vieni qui, vedrai che è meglio-
-No, voglio tornare a casa-
-Sei una stupida, facevo meglio a lasciarti dove ti ho trovato-
Lei riprese a piangere, sentii dei passi che andavano su e giù per la stanza. Era lui, il passo era pesante e nervoso. La voce che avevo sentito di sicuro apparteneva ad un uomo adulto, forse della mia età, cosa ci faceva una ragazza così giovane con lui?
I passi risuonarono di nuovo più vicini, come se lui stesse ritornando verso il letto – dai, vieni qui, su spogliati – lo sentii dire.
Porco bastardo, lasciala stare.
-Senti ragazzina, non ti ho mica pagato da bere per la tua bella faccetta-
Ora sembrava molto contrariato e sul punto di perdere la pazienza, temetti che potesse farle del male, cosa avrei fatto allora? Istintivamente m’infilai le scarpe mentre mi ripetevo che lo sapevo, sapevo che prima o poi mi sarei trovato in una situazione del genere -quel bastardo, magari ha una figlia della stessa età – Sì, magari quello era uno come me, uno qualunque in giro tutto il giorno a vendere chissà cosa, magari un giorno sarebbe capitato anche a me di diventare come lui, perché in quelle stanze si finisce col lasciare fuori tutto quello che di pulito c’è nel mondo, la puzza ti rimane addosso e pensi che a levartela ti basti accarezzare una pelle soffice e profumata e non t’importa più se nel farlo cancelli l’ultima briciola di dignità che ti rimane.
Non sentivo più la ragazza piangere, forse aveva smesso, forse si era solo spostata in un punto più distante dalla parete, forse, spaventata, aveva ceduto. Quest’ultima ipotesi mi diede la nausea, avvicinai l’orecchio alla parete trattenendo il fiato, il solo pensiero di quei corpi uniti mi dava il voltastomaco – no, non puoi aver ceduto piccola – mi ripetevo. Avvertii però solo dei movimenti, poi ad un tratto la voce di lui mi fece sobbalzare.
– Fa come vuoi, io ne ho abbastanza, anzi mi è passata pure la voglia, è tardi. Se te ne vuoi andare accomodati, se rimani ti riporto a casa domani presto. Ora io voglio dormire, c’ho da lavorare io –
Non so per quanto tempo ancora rimasi in ascolto, so che mi sentii sollevato solo quando avvertii un lieve russare. Non avevo sentito la porta chiudersi quindi supposi che la ragazza fosse ancora lì. L’immaginai rannicchiata sulla poltrona blu scuro, uguale a quella che vedevo di fronte a me nella mia stanza, col viso stravolto dalle lacrime e abbandonato nel sonno fra macchie di unto e polvere. Se avessi potuto farlo l’avrei abbracciata e le avrei chiesto perdono per ogni parola che lui le aveva detto, sì avrei voluto dirle che la vita non era la miseria di quella camera, che fuori c’erano colori e profumi, e un ragazzo che l’aspettava per amarla.
Era a questo che pensavo, pensavo anche che non sarei riuscito a dormire, che quel pianto mi avrebbe tormentato, pensai a Maria che ormai non mi faceva più domande ma che forse qualche volta piangeva sommessamente, anche lei rannicchiata nel nostro grande letto, sola, delusa e ferita dai miei silenzi. Ad un tratto lo sguardo mi cadde sulla mia valigia da lavoro, “SILVERPLAT”, la scritta d’argento risaltava vistosamente sulla pelle nera, e ancora oggi non saprei spiegare perché lo feci, ma allora mi sembrò l’unica cosa che mi potesse liberare dalla miseria di quella notte.
Mi alzai dal letto con una determinazione che non provavo da tempo. Istintivamente guardai in alto. Se ci fosse stato uno specchio forse la mia immagine stavolta sarebbe stata diversa, pensai. Aprii la pesante tenda, e anche la finestra. Era ancora buio fuori, ma l’alba non avrebbe tardato a lungo ad arrivare. L’aria fresca con prepotenza s’infilò nella stanza. Tirai un respiro profondo, e guardai l’insegna ancora illuminata, presto quegli orribili colori fluorescenti si sarebbero persi in quelli del mattino. Lentamente mi rimboccai le maniche, le arrotolai con cura fin sopra i gomiti, slacciai l’orologio e lo riposi nella tasca della giacca. Con uno scatto secco, che risuonò nel silenzio della stanza, aprii la valigia ed iniziai a tirar fuori alcuni barattoli dalla valigia, i prodigiosi detergenti che la ditta produceva, li allineai su un ripiano che fungeva da scrittoio, misi le scritte in evidenza rivolte verso di me, ” Vetroplat”, “Rapiplat”, stupidi nomi senza fantasia, liquidi azzurri e rosa che promettevano meraviglie, ed era quello che volevo. Volevo che cambiassero il mondo e lo tingessero di rosa e di azzurro, volevo che quella squallida patina di grigio che avevo negli occhi sparisse, volevo ubriacarmi di profumo di lavanda. Presi un asciugamano e iniziai a fare ciò che mi ero prefisso. Pulii. Sì, spruzzai e strofinai, pulii vetri, mobili, maniglie, finché mi sembrò che il profumo fosse sufficiente a coprire il marcio della stanza e della mia esistenza, pulii finché il chiarore del mattino chiazzò il cielo. Pensai a Maria, presto si sarebbe alzata per preparare il caffè indossando la sua camicia da notte a fiori, avevo una gran voglia d’abbracciarla.

da : http://www.edizionimelquiades.it/schedalibro.asp?lp_prod=7&lp_tip=1

( titolo tratto da un verso di Paper-thin hotel di Leonard Cohen)

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